Conoscevo il regista Edoardo De Angelis per il film Perez in cui una notturna Napoli high-tech, fredda, geometrica e iperrealista, lontanissima dal folklore e dai cliché malavitosi alla Scampia di Gomorra&Co (il film è ambientato nel Centro Direzionale di Napoli, quasi una Défense parigina calata nel quartiere di Poggio Reale) fa da scenario/personaggio ai protagonisti. Completamente diversa la messa in scena di Mozzarella stories, storia di un allevatore casertano, Ciccio Dop (“uomo a Denominazione di Origine Protetta”) re della mozzarella di bufala che deve far fronte alla concorrenza sleale dei cinesi e ai tradimenti familiari. Mozzarella Stories è solo apparentemente un film di mazzette e corruzione, di boss casertani e ragioneri della camorra. È (anche) un melodramma con almeno due subplot che si innestano sulla storia principale, il triangolo tra Autilia Jazz Mood, Angelo Tatangelo e Gino Purpetta (polpetta) che, come da copione, finirà tragi(comi)camente, e la malinconica storia tra Dudo (lo Zingaro Napoletano) e il pallanuotista evocata in più momenti nel corso del film attraverso surreali apparizioni e scene oniriche. Non aspettatevi però leitmotiv musicali alla Gigi D’Alessio, anche se la star musicale del film si chiama Angelo Tatangelo, perché la musica neomelodica si veste di ritmi caraibici, come nella debordante sequenza iniziale, ambientata in una piscina, in cui una finta bufala, calata dall’alto, “partorisce” mozzarelle nell’acqua, sulle note di “Mozzarella mambo”. Oppure viene nobilitata nella raffinata interpretazione dalle atmosfere jazzistiche di Autilia Jazz Mood/Aida Turturro (la sorella di Tony Soprano). Certo, la chiave grottesca e kitsch (leggi Kusturica, tra i produttori del film) non poche volte prende il sopravvento, perché di latte sul fuoco il regista ne ha messo molto e, secondo qualcuno, non sempre la cagliata sembra riuscire. Ma nonostante questo, a mio avviso, è della componente melò di cui maggiormente si sostanzia Morrarella stories. Lo stesso Ciccio Dop, nella sua rozzezza, è l’uomo che parla con le bufale (“sei un animale, solo con le bufale puoi stare!” gli urla la figlia), che le ama come fossero parte della famiglia perché dall’apparente sporcizia in cui vivono gli animali può nascere qualcosa di puro, perché, a differenza della moglie che anni prima lo ha lasciato, le bufale non lo abbandonano. Sentimenti che Ciccio Dop esterna agli animali in una triste sceneggiata messa a tacere dalle fucilate del traditore Gravinio. Un discorso a parte merita il personaggio di Dudo, il cosiddetto Zingaro Napoletano, antieroe triste e silenzioso che non sa più fare il suo mestiere di “recupero crediti”, tormentato dal fantasma del misterioso pallanuotista. Dudo è protagonista di una delle sequenze più riuscite, ambientata in una piscina olimpionica: lui e il compagno privo di vita fluttuano in acqua mentre gli altri protagonisti, seduti su due gommoni, si avvicinano remando. Una scena potentemente onirica, dai toni lividi, freddi e cupi, “riscaldata” da Angelo Tatangelo che canta (qui sì in versione neomelodica) Zingaro Napoletano e gli tende una mano. Emerge un senso di deriva e, nello stesso tempo, di vicinanza rimarcato dalle inquadrature dall’alto, dalla carrellata laterale che segue uno dei due gommoni e dai movimenti avvolgenti della macchina da presa che sembra fluttuare anch’essa sulla superficie increspata dell’acqua. E allora, più che ai registi del filone “mangiaspaghetti”, Mozzarella Stories mi sembra evocare più il cinema di Pappi Corsicato, un umorismo nero che pervade il film e che si esplicita in una sorta di semantica alimentare e “casearia”: dai nomi dei personaggi (Ciccio Dop; l’ispettore Mungillo; Gigino Purpetta omonimo di Luigi Cesaro, presidente della provincia di Napoli e detto Giggino ‘a Purpetta) alle battute: “don Ciccio, ve lo debbo dicere: voi non tenete più consistenza”.
Il bianco lattiginoso del latte si contamina con il rosso del sangue di don Ciccio e, infine, si tramuta nel nero luttuoso della figlia Sofia che prende il nerbo dell’azienda facendo giustizia dell’assassinio del padre: sangue e caglio.
Per ragioni anagrafiche mi sono imbattuto in Christopher Lee abbastanza tardi, al cinema San Giorgio quando mio padre mi portò a vedere 007 L’uomo dalla pistola d’oro. Tra le varie sfighe di noi nati a metà degli anni Sessanta c’è anche quella di aver conosciuto 007 con quel bambolone di Roger Moore (che si salva però alla grande con Simon Templar e soprattutto con Attenti a quei duein coppia con Tony Curtis).
In un post precedente, Carne tremula, avevo già accennato al cibo degli zombies, ma adesso, passando al sangue, il cibo dei vampiri, vorrei omaggiare uno dei Dracula più famosi e spaventevoli, almeno per me, tralasciando le centinaia di film dedicati al principe delle tenebre. Il Dracula a cui mi riferisco è il primo della gloriosa Hammer Film, Dracula il vampiro (il titolo originale è Dracula che diventerà Horror of Dracula nella versione americana distribuita dalla Universal) di Terence Fisher, del 1958, con, oltre al Nostro (sono 7 i Dracula della Hammer interpretati da Christopher Lee), un’altra bella faccia come Peter Cushing nel ruolo di Van Helsing.
Quello che invece i vampiri non mangiano e non possono nemmeno sopportarne la vicinanza è l’aglio, che tuttavia nel film in questione si vede solo una volta, appeso nella locanda/taverna (l’insegna fuori ritrae due chiavi incrociate) quando compare Van Helsing per la prima volta. Sui poteri taumaturgici dell’aglio ci sarebbe da disquisire non poco, dallo spicchio sotto il cuscino per scacciare i vermi alle punture delle vespe che miracolosamente scompaiono sfregando uno spicchio sulla ferita.
Tra l’altro la sequenza ha un efficace movimento di macchina che - partendo dalla treccia dell’aglio - scruta con attenzione il locale soffermandosi sui particolari, tipo una sorta di tabernacolo contenente forse dell'acqua santa e un crocefisso, e staccando infine sulla porta d’ingresso. Van Helsing entra ma è inquadrato di spalle, e mentre la macchina da presa lo segue rivela lo sguardo diffidente degli avventori (cliché assai inflazionato in questi film: avete presente Un lupo mannaro americano a Londra?).
Se l’aglio compare poco, è il crocifisso la vera arma letale per i vampiri, anche in forma improvvisata come nella scena finale quando Van Helsing imbraccia due candelabri e li intreccia a croce latina. Chi volesse approfondire su usi e costumi dei vampiri può leggere Il libro dei vampiri di Fabio Giovannini, una vera bibbia sull’argomento.
Ma un’altra sfiga di noi nati a metà degli anni Sessanta è che molti film che abbiamo visto in tv erano in bianco e nero, quando invece erano stati girati a colori (e che colori!), quelli sfavillanti del Technicolor. Per cui i miei ricordi sono indelebilmente legati al b/n, quasi una censura preventiva per minorenni, un po’ come negli anni Settanta quando i produttori obbligavano i registi a utilizzare un filtro per le scene più violente (è il caso per esempio della scena della strage in Taxi Driver).
Rivedendo Dracula il vampiro a colori mi sono reso conto di aver perso: i titoli di testa color rosso in stile gotico; le sfumature dall’ocra al marrone degli splendidi abiti di Van Helsing (nel corso del film indossa magnifici abiti e cappelli, cappotti con colletto in pelliccia di volpe, una giacca in velluto color bordò, un havelock blu alla Sherlock Holmes e, in una scena, tira fuori dalla tasca un fazzoletto rosso fiammante); le rosse labbra carnose di Mina; il repentino passaggio dalle luci alle tenebre; il viso spettrale di Dracula addormentato nella bara; la camicia da notte color turchese di Lucy; la mantella verde di Mina quando vaga nella notte; la cicatrice rossa a forma di croce sulla fronte di Lucy o sul palmo della mano di Mina e, soprattutto, i tendaggi rossi che vengono strappati da Van Helsing nell’ultima mitica scena, quando la luce disintegra il vampiro riducendolo in cenere, spazzata via col vento. (Questo post è dedicato a Giuseppe Lippi).
Primo amore di Matteo Garrone è un film sulla sottrazione. Il protagonista, Vittorio, è un orafo con un ideale di bellezza femminino che corrisponde alla magrezza più assoluta, un ideale portato all’estremo in un gioco di vittima e carnefice che coinvolge una ragazza, Sonia, conosciuta a un appuntamento al buio. Al primo incontro, alla stazione degli autobus, l’orafo svela subito la sua ossessione (“Ti immaginavo più magra”), poi si accomodano in un bar, lui prende un caffè, lei un caffè americano o un cappuccino (“Niente zucchero?” chiede lui). L’imbarazzo tra i due è evidente, soprattutto da parte di Sonia che non ha digerito il commento sulla magrezza, ma forse l’orafo è stato piacevolmente colpito dal fatto che lei abbia preso il caffè senza zucchero: forse è disposto a darle una seconda possibilità. Stilisticamente è una sequenza molto bella: un dolly a scendere dall’alto inquadra un primo autobus che arriva sulla sinistra mentre un secondo parte sulla destra occultando lo schermo. La macchina da presa continua a muoversi mentre l’autobus blu abbandona lo schermo svelando per la prima volta il protagonista, Vittorio, appoggiato a una transenna che guarda l’orologio. Poi si avvicina a quella che potrebbe essere la ragazza, ma non è lei. La macchina da presa lo segue, inquadrandolo con un teleobbiettivo che esalta il volto dell’orafo e annulla lo sfondo. Al bar sono inquadrati di profilo, uno davanti all’altra. Il dialogo dura circa 3 minuti, senza controcampi, con la macchina da presa che panoramica molto lentamente prima verso di Sonia, poi torna su di lui e infine di nuovo su di lei. Le prime impressioni che l’orafo annota sul suo diario, dopo il primo incontro sono: “Simpatica, espansiva, tra i 55 e i 57 chili. Dovrebbe perdere almeno 10 chili”. Vittorio trasferisce parte del suo lavoro artigiano sul corpo della ragazza: vuole modellarla come se fosse un oggetto plasmabile, modificare il suo corpo, eliminare il superfluo. Lavorare di sottrazione. C’è un legame evidente con il proprio lavoro di orafo che fonde il metallo. La fiamma dei titoli di testa è il fuoco che brucia, che elimina il superfluo: “prima si raschia tutto, poi si brucia e quando restano le ceneri si fondono le ceneri e poi finalmente rimane solo più quello che è prezioso, quello che conta veramente.” Quando Vittorio tocca con la mano la spina dorsale di Sonia c’è una sorta di eccitazione e nello stesso tempo una conferma che il percorso compiuto dalla ragazza verso la magrezza è quello giusto (“Quando ti guardi allo specchio ti piaci di più o no, adesso?”). All’inizio c’è una sorta di compiacimento da parte di Sonia nel dimagrire, una prova d’amore nei confronti dell’orafo. La vediamo specchiarsi a petto nudo e accarezzarsi il costato oppure preparare da mangiare davanti a una lista di cibi proibiti con accanto il numero delle calorie: pasta di semola 356 NO; riso brillato 361 NO; Grana 103 NO; fette biscottate 410 NO; grissini 440 NO; burro 700 NO; olio d’oliva 900 NO: per me 1.000 calorie al giorno. Poi, si siedono a tavola, uno di fronte all’altra, Sonia che mangia delle verdure crude (“una carotina?”) lui con un succulento piatto ipercalorico. Ma non c’è rancore da parte della ragazza, anzi c’è la consapevolezza di essere nel giusto, di compiacere al proprio uomo come una vittima con il carnefice. Le cose però precipitano, quello che sembra un gioco, quasi un capriccio da soddisfare per il proprio compagno, si trasforma in un incubo: il cibo va espulso, i vestiti bruciati nella fornace (“tanto qua non ci entrerai mai”), il corpo segregato, il cibo occultato (“Vuoi mangiare? Mangia!!!! Non posso più fidarmi di te… mi hai veramente deluso… non sei ancora un’altra persona…”). La magrezza estrema viene resa con grande effetto visivo nella scena della barca: i volti dei due innamorati sono completamente sfocati, come due fantasmi incorporei che dialogano tra loro. Il culmine del sadismo si raggiunge al ristorante quando Vittorio ordina delle fettuccine con dei funghi prugnoli e un filetto (“ben cotto”), lei un’insalata “abbastanza abbondante senza olio né sale”. Poi lui si alza per andare a salutare degli amici e Sonia, dopo aver assaggiato furtivamente le fettuccine, va nella cucina del ristorante, inseguita da Vittorio, per abbuffarsi di tutto ciò che trova. “Era il tuo corpo che voleva mangiare, non la tua testa.”
Su Rai Movie, a notte tarda, non mancano i "Bellissimi", per dirla con Rete Quattro. Grandi classici che fanno la gioia di cinephiles e nottambuli alla ricerca del titolo di cui "non-si-può-fare-a-meno-di-vedere" per la duecentesima volta. Uno di questi è Viale del tramonto, anno 1950, regia di Billy Wilder. Film pieno di "manichini" (come afferma il protagonista interpretato da William Holden), da Buster Keaton a Cecil B. DeMille (che comunque di cartucce da sparare ne avrà ancora: basti pensare a I dieci comandamenti") passando, soprattutto, per Gloria Swanson ed Erich von Stroheim. Joe Gillis (William Holden) è il prototipo dello scrittore fallito, anzi fallito due volte, perchè autore non di romanzi ma di soggetti per il cinema, quindi robaccia che si vende un tanto al chilo a produttori affamati di oscar e successi al botteghino. Uno che non riesce a mettere assieme il pranzo con la cena, inseguito da creditori e strozzini, che finisce per mangiare caviale e Champagne nella decadente dimora di Norma Desmond, diva del muto senza più nessun contatto con la realtà. Gillis finisce per caso nella villa dell'attrice e del suo lugubre maggiordomo Max, ma non ne uscirà vivo, come sappiamo già fin dalla prima scena con il morto che parla in piscina. Il giovane scrittore pensa cinicamente di riuscire a sfruttare l'occasione per fare un po' di soldi: una vecchia attrice del cinema muto, milionaria e delirante, vorrebbe tornare sugli schermi con un nuovo film da lei scritto. Ha bisogno però di un revisore che metta mano alle centinaia di pagine che ha partorito (il soggetto è di un film su Salomè, la cui parte è, ovviamente, riservata a lei). Gillis accetta di stare al gioco (il suo compenso sarà di 500 dollari la settimana) allietato anche dalla vista di un carrello, spinto dal maggiordomo, con una zuppiera colma di caviale e un secchiello del ghiaccio da cui spunta una bottiglia di Champagne (per l'esattezza, come è scritto nella sceneggiatura del fim "Max comes in, wheeling a wicker tea wagon on which are two bottles of champagne and two red Venetian glasses, a box of zwieback and a jar of caviar."). Lentamente la ragnatela della pazza Norma si stringe attorno a Gillis che finisce per diventare il suo amante personale e assecondarla nel suo folle progetto di interpretare il film diretto da Cecil B. De Mille che a sua volta intepreta se stesso e che, in ricordo dei tempi passati, ha compassione delle sue stravaganze ma non può certamente dirigere una ex diva convinta che il sonoro abbia ucciso il cinema (“Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!” è forse una delle più belle battute della storia del cinema). Tra un litigio e una crisi suicida di Norma, con Max che si scopre essere stato in suo primo regista nonchè marito e che continua a scriverle lettere sotto falso nome da parte dei fans, il ménage degenera fino all'omicidio di Gillis, preso a pistolettate da Norma dopo il suo tentativo di abbandonare la casa. Gli operatori arrivati per filmare la scena del crimine saranno il suo ultimo ciak dal cinema e dalla vita: "Non si lasciano sole le grandi stelle! È per questo che sono stelle."
Attorno al cibo, nel cinema di Ettore Scola, si svolgono scene importanti. Non c’è film, o quasi, in cui i protagonisti non si trovino, almeno una volta, riuniti a tavola per mangiare, certo, ma anche per parlare, per confessarsi parole non dette per troppo tempo, per litigare. Avevo già scritto, alcuni post fa, delle osterie a proposito di Pietro Germi. Vorrei invece soffermarmi adesso sulle trattorie di Ettore Scola. Che differenza c’è tra una trattoria e un’osteria? Non ne ho la più pallida idea, se non per la diversa etimologia. Diciamo, semplificando molto, che nell’osteria si va per bere, come ne Il ferroviere di Germi oppure in Novecento di Bertolucci (ricordo la scena in cui Ada-Dominique Sanda si ubriaca) mentre in trattoria si va per mangiare e poi bere (ovviamente non valgono le distinzioni di oggi in cui l’osteria, sdoganata da Slow Food, ha acquisito una connotazione “alta”). Con l’anniversario della morte di Troisi la tv ha trasmesso quasi tutti i suoi film tra cui Che ora è di Ettore Scola. Ne ho rivisto una parte, fino alla scena in cui, uscito dalla caserma, Troisi figlio va a mangiare in una trattoria con Mastroianni padre. Il pranzo è l’occasione per imbastire un discorso tra padre e figlio, inizialmente scherzoso e spensierato e poi, poco per volta, più serio, con un momento di forte contrasto perché Mastroianni è il classico padre buontempone, amicone, un po’ stronzo, spesso assente (ricordate il Walter Chiari de Il giovedì?) mentre Troisi è il figlio responsabile, con la testa sul collo, che si vergogna anche un po’ del padre cialtrone che lo mette in imbarazzo con battutacce. Seduti a tavola, Mastroianni ordina del vino bianco e poi un menu con portate a base di pesce (siamo a Civitavecchia), regala al figlio un orologio che era appartenuto al nonno, un regalo graditissimo. L’armonia si rovina quando Mastroianni pronuncia l’espressione “allucinante al massimo” tipico modo di dire giovanile. Il detto si riferisce a una sua relazione extraconiugale con una ragazza molto più giovane (che parlava usando questo idioma da “ggiovani”). E’ in questo momento che il discorso e la (finta) armonia tra padre e figlio si interrompe, i ruoli si invertono, il padre sbotta rivendicando il diritto a parlare come meglio crede senza per questo dover essere ripreso da un figlio bacchettone. Poi, lentamente, l’imbarazzo viene superato. Ma è solo una temporanea fuga perché il conflitto tornerà più avanti, questa volta in un bar fumoso molto simile a un’osteria, in cui Troisi figlio è di casa, benvoluto dai vecchi pescatori che frequentano il locale. E qui scatta, paradossalmente, la gelosia di Mastroianni padre nei confronti dei vecchi pescatori che sembrano averlo sostituito nella figura paterna, che sanno più cose loro su suo figlio di lui stesso. Mastroianni si accorge che quel figlio, con il quale non riesce a parlare, è invece così affettuoso (ricordo a questo proposito la scena della grappa) con Sor Pietro il vecchio gestore del bar. E così Mastroianni padre non trova altro di meglio che fuggire per l’ennesima volta. Scola ci ha abituati a scene come queste, a volte scegliendo il registro drammatico, altre quello comico, in entrambi casi con ottimi risultati. In C’eravamo tanto amati l’osteria “Dal re della mezza porzione” è il luogo del primo incontro tra Gianni-Vittorio Gassman e Antonio-Nino Manfredi ma anche della rimpatriata trent’anni dopo (“Re de la mezza! Me sa che manco stavorta te pagamo”; “Eh sai che novità”) oltre che del primo incontro tra Luciana-Stefania Sandrelli e Nicola-Stefano Satta Flores che ordina il mitico Picchiapò (manzo con pomodoro e cipolla). In La Famiglia le scene conviviali sono innumerevoli tra cui due particolarmente intense. La prima con Gassman e la Sandrelli in cucina, a sbocconcellare avanzi dopo che tutti gli invitati della festa se ne sono andati (“Il momento più bello delle feste è quando si resta soli a sparlare”), la seconda, tenerissima, ancora con Gassman, ormai vecchio, e il nipote Carletto-Sergio Castellitto. Le grandi tavolate della numerosa famiglia hanno lasciato il posto al più spartano tavolo in marmo della cucina. Gassman, suo malgrado, sta per mangiare una triste minestrina, Carletto, seduto di fronte, un piatto di spaghetti. Uno sguardo di complicità tra i due e poi Carletto imbocca il nonno con una generosa forchettata di spaghetti (“mhmm… boni!”). Ci sono poi i film che già dal titolo annunciano la loro appartenenza al “regno” alimentare, come La cena tutta ambientata da “Arturo al Portico” con la divertente sfuriata di Giancarlo Giannini al cameriere (“Questa non è una cotoletta, è la famigerata fettina panata! La milanese, sappia, che è alta un dito ed è cotta nel burro”; “Siamo mica a Milano…”; “E se ordinavo il salmone che cosa mi diceva? Non siamo in Norvegia?”). In Maccheroni i due protagonisti, Marcello Mastroianni e Jack Lemmon si gustano due “babà alla panna supertridimensionali con doppio schizzo” passeggiando in Galleria Umberto I, mentre nella scena finale il piatto di maccheroni fumanti lascia presagire un suo ritorno dall’aldilà. Chiudiamo con Hostaria, episodio de I nuovi mostri, e la celebre battaglia nel retrobottega tra Gassman e Tognazzi, mentre in sala, i commensali radical chic aspettano la specialità della casa ossia lo zuppone alla porcara: “E per secondo che cosa abbiamo?”; “Scottadito, polipo strascinato, straccetti de trippa, bollito alla scarpara, sarsicce strangolate, inguagghietto de spinaci, porpette cor sugo maritato, faggioli alla porcareccia, baccalà alla sdrucita… c’abbiamo tutto, volemo fa un bel mischio misto? Faccio io? Ve fidate?” Se fidamo.
I titoli di testa in un film sono importanti. Mi è capitato di parlarne alcuni post fa a proposito della scomparsa di Saul Bass che è stato un maestro in ciò che può essere considerato un piccolo film nel film. Riuscire in pochissimi minuti a condensare temi e motivi di un intero lungometraggio non è cosa da poco. A volte può capitare che siano i titoli di coda a essere un piccolo capolavoro, come per esempio in Apocalypse Now, in altri casi possono essere angoscianti e criptici come la lunga sequenza di apertura di Persona di Bergman, che dura circa 6 minuti e che si collega a sua volta al celebre finale in cui la pellicola si incendia. I titoli di testa di cui vorrei parlare sono quelli di Dexter, il serial killer protagonista dell’omonima serie televisiva che tante soddisfazioni ci ha e ci sta regalando. Gli appassionati della serie sanno che gran parte della sigla iniziale è costruita sul presupposto che il cibo e l’atto del mangiare siano assimilabili a una forma di violenza. O meglio, la sequenza dei titoli mette in scena il semplice atto del mangiare come se fosse una sorta di rituale cannibalesco, esasperando la gestualità delle singole fasi che riguardano la preparazione di un pasto, con primissimi piani, rumori di masticazione amplificati e stridori di posate sulla ceramica dei piatti che mettono i brividi (gli stridori, non i piatti). E allora come mangia e come si prepara il cibo Dexter nella sequenza dei titoli di testa? Dopo aver ammazzato una zanzara sul braccio ed essersi raso la barba ispida (ovviamente tagliandosi, come dimostra la goccia che cade sul candido lavandino, forse una citazione da The Big Shave di Scorsese?), Dexter con un coltello (e che altro?) apre una bistecca incellophanata. La lama scorre, la superficie della carne viene leggermente rigata con piccoli sfregi. Quindi la infilza e la getta in un tegame, non prima di aver messo una bella noce di burro a sfrigolare. Una velocissima passata e il filetto è pronto, al sangue manco a dirlo, per essere addentato (i primissimi piani, anzi i dettagli del viso di Dexter, della bocca, dei suoi incisivi e del cibo abbondano). Poi è la volta di un uovo al tegamino. Il guscio che si rompe sul bordo del tegame, poi l’uovo sfrigola, il coltello lo taglia nel piatto, i movimenti sono velocizzati dal montaggio digitale, alcune gocce di ketchup completano la scena mentre forchetta e coltello stridono sulla superficie del piatto. Un buon caffè ci vuole adesso. Ecco una bella inquadratura dall’alto che ci mostra un macinacaffè che tritura (come in Fargo dei Coen) i chicchi, poi lo stantuffo di una pseudocaffettiera per caffè americano e l’acqua bollente, che ustiona, per poi passare velocissimi all’esecuzione cruenta e splatter dell’arancia. Tagliata a metà senza pietà, mentre gli schizzi nebulizzano l’aria, il coltello affonda, divide il frutto in due parti, pronte per essere immolate, schiacciate, spremute, torturate sullo spremiagrumi.
E’ buona educazione dopo qualsiasi pasto lavarsi i denti o almeno passare il filo interdentale. E questo Dexter lo sa. I polpastrelli stringono il filo a più mandate e poi fanno il loro sporco lavoro a cancellare ogni traccia interstiziale. Le parti dedicate al cibo finiscono qui perché poi inizia la vestizione: Dexter si allaccia le scarpe come se dovesse strozzare qualcuno e si infila la tshirt bianca come se stesse per soffocare una delle sue vittime.
La sigla è tra le più belle e originali di quelle che si possono vedere, soprattutto nelle serie televisive e, soprattutto, tra quelle di genere horror-criminale. La scelta di usare la normalità della preparazione e dell’assunzione di un pasto come metafora della personalità di Dexter è quanto di più vicino alla psicologia del protagonista, al suo modus operandi, tanto per usare la terminologia cara ai criminologi da salotto brunovespiano. Dexter è, all’apparenza, una persona normale. E’ perfettamente conscio del fatto che le sue azioni siano criminali, ed è conscio di avere, come lo chiama lui, un “oscuro passeggero” che lo induce a compiere il male. Grazie al padre adottivo ha imparato a indirizzare i suoi istinti violenti solo nei confronti di chi “se lo merita” e cioè assassini, stupratori ecc. Quegli istinti però non lo abbandonano mai del tutto. Ed è per questo che anche i semplici gesti della preparazione di una colazione diventano ai suoi occhi (e ai nostri di spettatori che conosciamo la vera personalità di Dexter) i raffinati preliminari di un omicidio.
Per i patiti, a questo link il découpage completo della sigla di testa.
La morte di Philip Seymour Hoffman ha costretto la tv a mandare in onda il suo unico, credo, film da regista. Jack Goes Boating è una tenera storia d'amore tra due mistfist. Lui fa l'autista di limousine, è timido, goffo, ama il reggae ed è obbligato a portare sempre in testa un assurdo berretto nero per coprire i suoi dred biondi. Non sa nuotare e non sa cucinare. Lei lavora in un'agenzia di pompe funebri, è frigida, complessata, piena di insicurezze e paure. Vorrebbe tanto fare una gita in barca quando la primavera arriverà a scacciare l'inverno freddo e nevoso di New York. Jack e Connie si conoscono a una cena al buio organizzata da una coppia "normale" amica di entrambi. Come due adoloscenti alle prese con i primi turbamenti emotivi, Jack e Connie si evitano per paura di avere paura. Jack prende lezioni di nuoto perchè se vuole portare Connie in barca in primavera deve saper nuotare. E poi va da uno chef perchè una donna si conquista anche grazie a una bella cena. E così Jack impara ad affettare le cipolle senza lacrimare, a fare le costolette d'agnello, a gratinare le patate in forno. Ma quando arriva il gran giorno qualcosa va storto, non per colpa di Jack o di Connie ma per colpa della coppia "normale" che è ormai giunta al capolinea. L'allarme antincendio li scuote dal torpore e dai fumi del narghilè: la cena è bruciata, tutto è perduto. Jack ha una crisi e si chiude in bagno come un bambino cappriccioso. Allora Connie e l'altra coppia, con una radiolina in mano, intonano Rivers of Babylon e come per magia la tensione cala. Jack ritorna a essere Jack. Adesso ha capito che quella cena non era poi così importante per conquistare Connie. Così può chiudere gli occhi e immaginarsi, sotto il sole primaverile, in barca con Connie come una vera coppia "normale". Riposa in pace Philip Seymour Hoffman.
La prima volta che mi sono imbattuto in Ingmar Bergman è stato all’inizio degli anni Ottanta, a Cavallermaggiore, grazie alla presenza di un cineclub (Proteus Club) animato da Dionisio Bauducco, Enrico Ottaviano, Gianni Piovano, Filippo Procida, Flavio Rosso. Venne organizzata, nei locali della sala incontri del comune, una retrospettiva con molti film del maestro svedese: Il settimo Sigillo, Persona, Come in uno specchio, Luci d’inverno, Sussurri e grida, La fontana delle vergini e Il posto delle fragole (il titolo della retrospettiva era Dissolvenze sulla Dissoluzione: non male per un sedicenne appassionato di cinema). Il posto delle fragole non l’ho più veduto da allora quando, recentemente, Francesca Nanna, una foodblogger appassionata di food e cinema me lo ha segnalato nel suo bellissimo blog. Per chi non avesse visto il film, Il posto delle fragole racconta la storia di un vecchio professore (Victor Sjöström, grande regista del cinema muto svedese) che si reca a far visita alla madre in compagnia della nuora e a ritirare un prestigioso premio all’Università di Lund. Durante il viaggio il professore si ferma presso una casa in campagna in cui si trova il posto delle fragole, un luogo in cui il professore da giovane andava in villeggiatura con i fratelli e i cugini. Il vecchio professore, ormai giunto nell’autunno della vita, è turbato da incubi (memorabile quello iniziale) e ricordi melanconici. Il posto delle fragole diventa quindi l’occasione per ricordare la propria giovinezza. Anzi il professore si rivede letteralmente nella casa della villeggiatura come un testimone non visto dal resto della famiglia. Nel primo dei sogni a occhi aperti il professore osserva una sua giovane fiamma che raccoglie un cesto di fragole per farne dono a un vecchio zio, poi rivede la propria madre, i fratelli e i cugini. Nel secondo sogno il posto delle fragole è incolto, con le fragole gettate per terra. Questa volta il sogno è turbato dalla visione della moglie che lo tradisce. Infine l’ultimo sogno a occhi aperti, il più bello, tenero e melanconico, ci mostra nuovamente il posto delle fragole ormai senza frutti perché la stagione è finita. Il professore rivede per l’ultima volta la sua amata cugina, i genitori, la casa della villeggiatura. Si addormenta quindi sereno nel suo letto, riconciliato con la vita.
Sulla Stampa di oggi (13 giugno 2013) mi è capitato di trovare un paginone dedicato alle mance nei ristoranti. Il primo articolo è dedicato al Giappone e alla consuetudine di non far pagare le mance ai clienti, primo perché sarebbe un atto di maleducazione nei confronti del cameriere e secondo perché rovinerebbe il rito del pasto, soprattutto nel caso del sushi. L’altro articolo è una carrellata sulle abitudini in Europa, sull’usanza di dare la mancia al cameriere (per esempio in Francia è pressoché obbligatoria e viene spesso conteggiata nel conto con una maggiorazione del 15%). A proposito dell’Italia l’autore dell’articolo rimarca la “brutta” abitudine di noi italiani di non dare mai la mancia al cameriere, anzi di conteggiare bene il resto. Lo chef Massimiliano Alajmo dice che nei grandi ristoranti stellati se il cliente è ben “coccolato” dal cameriere la mancia è quasi un atto dovuto. E’ ovvio che se vai in un ristorante del genere dove sei disposto a spendere 150 euro, magari in quattro, puoi anche lasciare 50 euro di mancia al cameriere. Diverso il caso di una pizzeria dove spendi 15 euro di cui 2 per il coperto. Tutto ciò mi ha fatto venire in mente la sequenza di apertura de Le Iene, quella successiva all’esegesi critica di Like a virgin di Madonna. La discussione nasce dal fatto che Mister Pink non vuole lasciare la mancia alla cameriera nella caffetteria dove sono riuniti. Gli altri “colleghi” lo riprendono severamente per il suo atteggiamento antisindacale, sottolineando la necessità che hanno le cameriere di arrotondare il loro magro stipendio con le mance. Mister Blue: “Te ne freghi che contino sulle mance per vivere?” Mister White: “Tu non sai nemmeno di che cosa stai parlando. Si fanno un culo come una casa. E’ un mestiere duro il loro”. Mister Pink: “Lo è anche lavorare da McDonald ma loro non prendono mance.” Mister White: “Fare la cameriera è il mestiere più diffuso tra le ragazze che non hanno un titolo di studio in questo paese. E’ il mestiere che praticamente ogni donna può fare e camparci anche. E questo solo per via delle mance.” Niente male per un gruppetto di bravi ragazzi che di lì a poco si sbraneranno tra loro.
Torno su Scorsese dopo averne già scritto a proposito del cibo italoamericano in Italianamerican. In modo alquanto sommario si può dividere il cinema scorsesiano, da un punto di vista alimentare, in due filoni. Da una parte c’è la tradizione rappresentata dagli spaghetti, dalla salsa di mamma Scorsese, dall’aglio affettato con la lametta da barba in Goodfellas ecc. In questi film il cibo è ritualità e segno di appartenenza a un clan, è convivialità ma anche occasione per discutere di affari (o’ businesse). L’altro filone è rappresentato dal junk food ossia il cibo spazzatura. In questo senso il film di Scorsese che maggiormente evidenzia il junk food è senza dubbio Taxi Driver. E’ interessante notare che da un punto di vista strettamente sociologico e simbolico il junk food è molto legato alla solitudine e all’individualità. Laddove il cibo e l’atto del mangiare tradizionale è un momento conviviale, di festa (e ancora una volta l’esempio dall’aglio affettato con la lametta da barba in Goodfellas è sintomatico: un luogo per eccellenza di solitudine e isolamento come il carcere diventa una sorta di dependence di un ristorante italiano), nel cibo spazzatura è l’individuo che consuma, da solo come in un dipinto di Edward Hopper. Non a caso molti fast food sono frequentati da persone singole, studenti, gente che viaggia per lavoro (soprattutto nelle stazioni). Certo, ci sono anche le famiglie ma il clima, per così dire, è diverso da quello di una pizzeria, di una trattoria o dello street food (sarebbe interessante mettere a confronto i due estremi ossia il fast food e la ristorazione dei grandi chef stellati: nel primo caso c’è una omologazione e spersonalizzazione dell’atto del mangiare, nel secondo caso c’è una sacralità e un’attenzione spasmodica al commensale che sfiora il timore, che incute in senso di paura, paura di alzare la voce, paura di storpiare il nome di un vino o di un piatto, paura di sporcare il tovagliolo, addirittura di mangiare). Torniamo a Taxi Driver. Il protagonista Travis Bickle (Robert De Niro) è l’emblema della solitudine (I’m God’s lonely man) che si rispecchia anche nel junk food. Le scene in cui lo vediamo alle prese con il cibo sono quasi sempre caratterizzate dalla solitudine più triste, anche quando è in compagnia della baby prostituta Iris (Jodie Foster) o dell’algida Betsy (Cybill Shepherd). Nella prima scena che ci mostra il suo squallido appartamento, vediamo delle stoviglie appese al muro probabilmente mai usate, scatole di biscotti, lattine di coca cola. Anche la scena con Iris che fanno colazione in un caffè è caratterizzata dal tipico junk food adolescenziale (una quantità esorbitante di zucchero su una fetta biscottata). Un po’ meglio sembra la scena tra Travis e Betsy durante il loro primo appuntamento: lei prende un caffè con della macedonia, lui una fetta di torta di mele con caffè. Un altro esempio del junk food in Taxi Driver è rappresentato dalla scena in cui Travis prende un Alka Selzer nel diner dove si ritrova con gli altri taxisti, cosa che è capitata a tutti noi quando mangiamo delle schifezze (non male anche il Maalox, il Geffer o il Biochetasi). Un’altra scena emblematica è quella in cui Travis è davanti al televisore quasi in catalessi, mentre con un cucchiaino mangia da un barattolo una specie di crema che potrebbe essere burro d’arachidi. Oppure quella all’ingresso del cinema porno quando, pagando il biglietto, acquista uno snack dal nome Clark, dei popcorn e un bicchiere di Royal Crown Cola (una bevanda alternativa alla Coca Cola e alla Pepsy Cola negli anni Settanta). Insomma, lo stesso menu grand gourmet che mangiamo anche noi prima dell’ingresso in una multisala.
Nei mesi estivi i palinsesti televisivi si arricchiscono di proposte interessanti per cinefili. Spesso il primo pomeriggio o la domenica mattina non è raro imbattersi in qualche classicone ripescato negli archivi. Un po’ come quando a casa si trova un vecchio soprammobile d’argento che si credeva smarrito, gli si dà una spolverata, una lucidata e lo si rimette in centro tavola, così che gli amici quando vengono a trovarti ti dicono: “Carino! L’hai preso a un mercatino dell’usato?”. Recentemente mi è capitato di rivedere Campo de’ fiori un film di Mario Bonnard del 1943 con Anna Magnani, Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Prima di Roma città aperta, prima del Neorealismo “ufficiale”, la Magnani e Fabrizi erano già una coppia affiatata nell’avanspettacolo, oltre ad aver interpretato numerosi film con registi come Mario Mattoli, Vittorio De Sica e lo stesso Mario Bonnard. Rivisto adesso, a distanza di 70 anni, fa una certa impressione vedere le bancarelle del mercato e la varia umanità che si avvicenda in una piazza simbolo di Roma. La Magnani interpreta una fruttivendola verace come lo può essere solo la Magnani in stato di grazia, Fabrizi un pescivendolo che si crede un gentiluomo (e lo è in realtà) e tombeur des femmes, Peppino De Filippo un barbiere la cui bottega è un porto mare, in cui tutti vanno, tranne a farsi tagliare i capelli (Michele Sola docet). Ciò che colpisce è che il film è stato girato in ambienti reali (anche se sono molte le scene girate in studio, anzi quasi tutte come dimostra questo articolo), due anni prima che Rossellini girasse Roma città aperta, considerato con Paisà, Ladri di Biciclette della coppia De Sica/Zavattini e Ossessione di Visconi, il film manifesto del Neorealismo. Non solo, ma Campo de’ fiori ha già in nuce alcuni elementi che poi si svilupperanno nella commedia all’italiana (Monicelli, Risi ecc). Un altro aspetto che colpisce è che pur essendo girato in piena Seconda guerra mondiale, sembra che i protagonisti vivano in un mondo irreale dove la guerra non esiste. Il film esce, infatti, nelle sale il 24 giugno del 1943 (fonte: International Movie Data Base) circa tre mesi prima dell’armistizio dell’8 settembre, circa sei mesi prima dello sbarco degli alleati ad Anzio e circa un mese prima dello sbarco in Sicilia degli alleati. Sappiamo che la censura fascista fu molto più tiepida rispetto a quella nazista, non tanto perché più aperta, quanto perché la produzione di film di vario genere consentiva al regime di dare un’immagine dell’Italia “presentabile” come se i problemi non esistessero (il Gran Consiglio del Fascismo è dietro l’angolo). Gli unici accenni alla guerra sono il razionamento delle risorse (per esempio in una scena si fa riferimento alla borsa nera per l’acquisto dell’olio). Godibilissime sono le schermaglie amorose tra Fabrizi, venditore di pesci e la Magnani fruttarola (“aranci! Aranci bbelli! Questi sì che so ffresci!”). Mentre Fabrizi vende il pesce, in particolare la ciriola, che è una specie di piccola anguilla, e il branzino (“col branzino fatece pasta e broccoli signò!”) la Magnani ironizza sul pesce che non è fresco (“e annate che me fate seccà a frutta con sta puzza!”). Bellissimo il trailer: Attenzione!!! Attenzione!!! Presentiamo Aldo Fabrizi, Anna Magnani (ecc.) nel film “Campo de’ fiori", un film semplice, sincero… umano. Prossimamente su questo schermo.
Alla faccia del dolby surround e dell’home video.
Non c'entra nulla con il cibo. Mi sembrava doveroso però dedicare un post a Saul Bass su suggerimento del doodle che Google gli ha dedicato l’8 maggio, il giorno del suo 93° compleanno. Saul Bass non è solo il titolista di molti film ma un vero e proprio autore che ha fatto della sequenza dei titoli di apertura dei piccoli cortometraggi ricchissimi di soluzioni narrative e creative. La sequenza di apertura di un film, quella in cui compaiono i titoli di testa, è molto importante perché rappresenta una sorta di condensato del film in pochi minuti. Molti registi non se ne curano, utilizzando semplicemente un fondo nero con i titoli, altri invece si sono affidati a Saul Bass per creare delle sequenze ad hoc. Un esempio è West Side Story in cui, oltre ai titoli di testa, Saul Bass ha curato anche quelli di coda, quelli che di solito non vediamo, sia perché vengono brutalmente tagliati (in televisione) sia perché in sala si accendono le luci. In West Side Story i titoli di coda durano oltre 5 minuti, un vero e proprio film nel film. Saul Bass ha disseminato i credits sui muri coperti di graffiti dalle due gang protagoniste del film, ricreando il linguaggio delle bande giovanili che utilizzano il graffitismo come forma di comunicazione e street art. La capacità di Saul Bass di sintetizzare concetti e temi espressi dal film in pochi minuti è evidente in molte altre sequenze da lui firmate. In Vertigo di Hitchcock è il tema della spirale e della vertigine che ricorrono come elementi ossessivi e ipnotici in tutto il film. In L’età dell’innocenza di Scorsese la sequenza di apertura si apre sulle pagine scritte di un manuale di galateo per poi dispiegarsi in una successione di fiori che sbocciano, soffocati però da una trama di pizzi e merletti, metafora delle convenzioni della società aristocratica che non tollera l’amore tra Newland e la contessa Olenska. Per chi vuole approfondire, su questo link un bel documentario dedicato a Saul Bass.
Quella di far seguire un party a un funerale è un’usanza ripresa in moltissimi film in cui è di scena una cerimonia funebre. Non credo si tratti di una consuetudine legata a determinate aree geografiche come USA e UK (anche se il mio immaginario cinematografico è legato soprattutto a questi paesi) perché il banchetto funebre ha radici antiche. Mangiare con il morto, mangiare per il morto, vegliare (wake) il morto sono tutte pratiche per esorcizzare le paure e per prendere congedo dai nostri cari onorandone la memoria. L’altra sera ho rivisto per l’ennesima volta Il cacciatore, non dall’inizio, ma dal momento in cui Michael (Robert De Niro) torna a casa dal Vietnam. Questa terza parte del film è la mia preferita perché la più impegnativa, in termini emotivi, da rappresentare. Michael non è certamente tipo da sensi di colpa per essere tornato sano e salvo, eppure non si dà pace, cerca di far uscire Steven (John Savage) dall’ospedale e poi ritorna in Vietnam per portare a casa Nick (Christopher Walken). Sappiamo tutti come andrà a finire e i protagonisti si ritrovano, dopo il funerale di Nick, nel bar di John (George Dzundza). Siamo sul filo di un sottilissimo confine che divide la retorica dal sentimento più autentico. Nessun discorso, nessuna frase fatta, tutti si danno da fare per portare in tavola il caffè, poi le tazze, la birra, le posate, sguardi tra Michael e Linda (Meryl Streep) mentre John va in cucina a preparare le uova strapazzate. Poi qualcuno intona sottovoce la melodia di God Bless America, come se fosse una nenia, ripresa da Linda quando John rientra con il tegame delle uova e poi, uno dopo l’altro, da tutti i personaggi che cantano la seconda strofa: “God bless America, / Land that I love. / Stand beside her, and guide her / Through the night with a light from above. / From the mountains, to the prairies, / To the oceans, white with foam / God bless America, My home sweet home / God bless America, My home sweet home.” Non era facile destrutturare un canto così patriottico da ogni retorica che, inevitabilmente, si porta dietro e renderlo una sorta di preghiera laica. Sarebbe stato più comodo barare, evitare la scena del funerale oppure sovraccaricarla di inutili significati, magari appiccicando un tronfio sermone. Anche Cimino, come il Michael che va a caccia, è stato leale, si è concesso un colpo solo: “Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo. Il cervo non ha il fucile: dev'essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale.“
Considerato il più giapponese tra i registi giapponesi, Yasujiro Ozu (ma sarebbe più corretto scrivere Ozu Yasujiro perchè è consuetudine giapponese mettere prima il cognome e poi il nome; e già che ci sono chiedo venia per aver deliberatamente trascurato gli accenti) è stato autore di oltre una cinquantina di film tra gli anni Venti e l’inizio degli anni Sessanta (il suo ultimo film, Il gusto del sakè è del 1962). Va detto che i film di Ozu sono stati, fino a qualche anno fa, praticamente sconosciuti in Italia. Personalmente mi sono “imbattuto” in Ozu all’inizio degli anni Novanta, grazie a Dario Tomasi, docente e studioso del cinema asiatico e in particolare di quello giapponese, a cui ha dedicato diversi saggi tra cui due castori (Ozu e Mizoguchi) e una monografia su Viaggio a Tokyo uno dei film più belli e intensi di Ozu. Una decina di anni dopo, nel 2003, quarantennale della morte di Ozu, Fuori Orario mette in onda tutta la sua filmografia (credo 34 film, quelli sopravvissuti) nel corso di diverse settimane e, ovviamente, di notte. Molti di quei film sono una prima visione assoluta tanto che sono sottotitolati per l’occasione. Credo di averli registrati tutti in VHS e prima o poi dovrò decidermi di buttarli. Non sono un appassionato di cultura giapponese e quindi non so spiegare il motivo per cui mi affascinano così tanto i film di Ozu (ma anche Kurosawa, Mizoguchi, Ichikawa, Shindo, Imamura, Oshima, Teshigahara, Tsukamoto, Kitano). Per provare a spiegare la mia Ozumania rubo le parole a Dario Tomasi che nel suo castoro ha sintetizzato così bene quella che lui chiama l’”Ozumania”: “Ciò che mi ha sedotto del cinema di Ozu è essenzialmente la sua capacità di partire da situazioni contingenti molto precise e di saperle lavorare in modo da ridurle ai loro principi ultimi. (…) Tali situazioni diventano rapidamente poco più che pretesti per dar forma a sentimenti che sono il vero oggetto d’attenzione del regista. (…) Quest’ampia gamma di sentimenti umani finisce col venire ridotta a una sorta di consapevolezza, che i giapponesi chiamano mono no aware e che potremmo interpretare come la commozione estetica suscitata dalla cose del mondo.” Ciò che colpisce del cinema di Ozu è la capacità di calare nel quotidiano un’aura di sacralità, quello che altri (Paul Schrader) hanno chiamato lo stile trascendentale, uno “sguardo altrove” come sottolinea Tomasi. Se vi capita di leggere la trama di alcuni film di Ozu, soprattutto gli ultimi, rimarrete colpiti dalla disarmante ordinarietà del quotidiano: due anziani genitori che vanno a trovare i figli a Tokyo (Viaggio a Tokyo), un vedovo che vorrebbe che la figlia si sposasse (Tarda primavera e poi Il gusto del sakè), una coppia senza figli che conduce un’esistenza monotona interrotta dal tradimento del marito con una collega di lavoro (Inizio di primavera) ecc. L’ordinario, il quotidiano, le consuetudini sono per Ozu il punto di partenza, il contingente da cui partire per arrivare a quella stilizzazione che ha come fine ultimo la consapevolezza dell’esistente come “effimero e transitorio”. Questo processo di stilizzazione formale investe anche, ovviamente, il luogo della quotidianità per eccellenza, ossia la casa e, nella fattispecie la stanza da pranzo (non so se sia corretto definirla tale) caratterizzata in genere dal braciere, dai tatami e dal tavolo molto basso e da pochi mobili. Anche la macchina da presa nel corso degli anni sembra accovacciarsi all’altezza del tatami, in una posizione anomala che ben presto è diventata il marchio di fabbrica di Ozu (chi volesse approfondire può vedere il film di Wim Wenders Tokyo-Ga dedicato a Ozu, con preziose testimonianze da parte dei collaboratori di Ozu, in particolare il “suo” attore Chishu Ryu e l’operatore Yuharu Atsuta). Come dimostra il finale di Tarda primavera anche il semplice gesto di sbucciare una mela si carica di una straordinaria ricchezza emotiva assumendo un’intensità che, da una lato, raggela il cuore per il senso di abbandono e, dall’altro, commuove teneramente per la serena accettazione della caducità di tutte le cose terrene. “I critici e i registi sono come il sakè: più invecchiano e più sono buoni.” (Yasujiro Ozu)
Il giovedì è un film di Dino Risi del 1963 interpretato da Walter Chiari. Il soggetto è molto semplice: un padre, di nome Dino (Walter Chiari) separato dalla moglie, può vedere il figlio Robertino solo una volta alla settimana, il giovedì appunto. Il giovedì diventa quindi un giorno cruciale per Dino, l’occasione per mostrarsi un degno padre, per recuperare affetto e stima, per stupire e divertire quel bambino che, sotto le grinfie di una rigida istitutrice tedesca, è decisamente più adulto e responsabile del papà. Ovviamente il personaggio interpretato da Walter Chiari appartiene alla galleria dei grandi cialtroni della commedia all’italiana, un po’ vigliacchi, sbruffoni, incoscienti, spendaccioni, scansafatiche, incapaci di assumersi delle responsabilità. E ovviamente questi personaggi li amiamo alla follia, anche perché in genere il destino riserva a loro brutte, amare, a volte tragiche sorprese (Il sorpasso) e quindi, in fondo, siamo sempre disposti a perdonarli. Spesso ci viene il sospetto che nella vita reale molti di questi attori/personaggi fossero realmente una cosa sola: la biografia di molti di loro (eccezion fatta per Alberto Sordi) è lì a dimostrarlo. Comunque sia, quando Dino viene a prendere Robertino, l’istitutrice si raccomanda sul cibo perché il bambino è allergico e lascia al padre un foglietto con le cose che non può mangiare. Ecco il dialogo tra Walter Chiari e il dottore, dopo che il figlio si è sentito male: “Che cosa ha mangiato?”; “Che cosa vuoi che abbia mangiato, ha mangiato normale, l’ho portato a mangiare io… ha mangiato un antipastino, un po’ di prosciutto, un po’ di salame… spaghetti alla ladra…”; “Spaghetti alla ladra?!”; “Sì sì, quelli con quei pezzettini di prosciutto, di lardo fritto e peperoncino rosso sopra. Poi fritto di pesce… ehm… sì un fritto di pesce, poi macedonia, torta gelato, fragole… un po’ di vino, ma mica tanto però, due dita”. Questa scena ci fa ricordare che l’incoscienza di questi personaggi è davvero incontrollabile, oltre misura, più forte di loro stessi. Quale padre metterebbe a repentaglio la salute del proprio figlio di 8 anni per un piatto di spaghetti alla ladra (ma esistono veramente?) e due dita di vino? Oppure un’amicizia, nata da poco, per una corsa spericolata in auto (Il sorpasso)? I cattivi della commedia all’italiana non hanno il know-how (come diceva una famosa mamma) per fare del bene, vorrebbero ma finiscono sempre col distruggere ciò che toccano, anche quando hanno pienamente ragione come il Sordi nel finale di Una vita difficile: a volte si impegnano, ma niente da fare, tutto sembra essere contro di loro. I figli e gli amici sono più disposti a perdonarli (meno le mogli, soprattutto se si tratta di mogli come la Franca Valeri ne Il vedovo). Nonostante le sciocchezze che combina, Dino/Walter Chiari riesce a conquistare il figlio (il fischio che si scambiano, nel tristissimo finale, ne è la prova) e sono sicuro che anche Roberto/Trintignant avrebbe chiuso un occhio sulla responsabilità di Bruno/Gassman per la sua morte. “Non bevi, non fumi, non sai nemmeno guidare la macchina…ma ti godi la vita tu?”.
Una di queste sere smanettando con il telecomando mi sono imbattuto nel film La maga delle spezie tratto dal romanzo di Chitra Banerjee Divakaruni (Einaudi). Stavo per cambiare cambiare canale, pensando fosse una commedia alla bollywood (a ridatece Satyajit Ray e Mira Nair!!), poi un bazar pieno zeppo di spezie coloratissime ha attirato la mia attenzione. La protagonista è una donna indiana, Tilo, che ha dei particolari poteri: parla con le spezie e le spezie parlano con lei rivelandole i desideri delle persone che frequentano il suo bazar di spezie. Ecco allora curcuma, zenzero, coriandolo, peperoncino, cannella, cumino, cardamomo che hanno il potere di “guarire” le persone che entrano nella sua bottega. Questo potere è però vincolato dal fatto che Tilo non può uscire dal suo bazar e non può innamorarsi di nessun altro, pena la perdita dei suoi poteri. Il bazar è frequentato dalla comunità indiana che vive nei paraggi (siamo a San Francisco, credo), ognuno con un problema: c’è l’anziano preoccupato perché la nipote si è innamorata di un occidentale, il giovane bullo che rischia di finire in una pericolosa gang, il taxista che subisce un’aggressione, i due innamorati delusi. Non c’è cruccio che le spezie non possano risolvere e non c’è segreto che Tilo non possa sapere grazie alla sua preveggenza. Tilo chiede consiglio alle spezie, prepara intingoli maneggiando pestelli e mortai oppure mette di nascosto nella tasca di un avventore una spezia, quasi fosse un talismano portafortuna. Il film, stemperato dagli eccessi bollywoodiani, mi ha ricordato certe commedie alla Lubitsch, quelle meno briose come Scrivimi fermo posta oppure, per restare in anni più recenti, film ambientati in “botteghe” come Smoke di Wayne Wang o Clerks di Kevin Smith (certo, ne La Maga delle spezie siamo mooolto più politically correct). Il potere evocativo e magico delle spezie mi fa venire in mente anche Un tocco di zenzero di Tassos Boulmetis e altri film dove alcuni ingredienti alimentari sono agenti di emozioni, ricordi e suggestioni.
Il 1968 è una data importante anche per il cinema. In quell’anno escono nelle sale La sposa in nero di Truffaut, Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner, Rosemary’s baby di Roman Polansky, Partner di Bernardo Bertolucci, Bullit di Peter Yates, Faces di John Cassevetes, Hollywood Party di Blake Edwards e… La notte dei morti viventi di George Andrew Romero. Benché abbia girato altri film, il nome di Romero rimane legato a questo debutto e, soprattutto, agli altri titoli che formano la trilogia degli zombies (Zombi, 1978 e Il giorno degli zombi, 1985). Ma chi sono gli zombi? Sono dei morti viventi che si cibano di carne umana, anzi più che cibarsi verrebbe da dire che sono attratti dalla carne umana quasi allo stesso modo in cui un vampiro (cinematografico) è attratto dal sangue. Il semplice morso da parte di uno zombi provoca, in chi è stato “assaggiato” una lenta ma inesorabile mutazione. Questo comporta un grave dilemma tra gli umani: quando una persona viene morsa che fare? Lasciarla morire lentamente e poi ucciderla quando si è trasformata in zombi, oppure ucciderla subito, quando è ancora lucida e consapevole del suo gramo destino? La situazione tipica, nei film di Romero, è quella del gruppo che si trova segregato o rincorso (si fa per dire, gli zombi sono veramente slow) dagli zombi. In genere nel gruppo ci sono legami affettivi o familiari (moglie/marito, padre/figlio, fidanzati ecc) per cui uno dei momenti di maggior intensità emotiva (a parte quando gli zombi si cibano degli umani) è quando il marito di turno decide di uccidere la moglie nel momento in cui non è ancora zombi ma è già infetta, oppure quando si rifiuta di ucciderla nonostante i consigli (interessati) del resto del gruppo, salvo poi vedere la moglie trasfigurata che cerca di papparselo. Al cinema gli zombi avevano fatto la loro comparsa già negli anni Trenta con L’isola degli zombies del 1932, interpretato dal "maestro" Bela Lugosi, e negli anni Quaranta con Ho camminato con uno zombi del 1943 di Jacques Tourneur, il grande regista de Il bacio della pantera e de Le catene della colpa (ma erano zombi non affamati, legati ai riti voodoo haitiani: d’altra parte Romero nei suoi film non utilizza mai il termine zombi). Se La notte dei morti viventi aveva tutte le caratteristiche per diventare un cult movie (girato in b/n, a basso budget e attori sconosciuti, con protagonista un nero che rischia di essere mangiato dai bianchi: avrà voluto dire qualcosa Romero?) i successivi girati negli anni Settanta e Ottanta spostano il mirino sulla società dei consumi: quando il solito gruppo si asserraglia all’interno del super-super-supermercato, con all’esterno la massa degli zombi che lentamente cerca di entrare, è facile vedere una critica non troppo velata al fatto che i grandi centri commerciali sembrano essere un po’ diventati un luogo di ritrovo per zombi/consumatori inibiti e omologati. Tutti sicuramente abbiamo invidiato il gruppo che, preso il centro commerciale, si diverte a fare la spesa, a provare abiti, a passare da un reparto all’altro con l’unico imbarazzo della scelta. E tutti ci siamo sentiti (sentiamo) un po’ degli zombi, con il carrello in mano, in file interminabili davanti alla casse.
I protagonisti della Nouvelle Vague sono tutti magri. Mangiare è per loro una perdita di tempo, assorbiti come sono dalla vita, fino all’ultimo respiro. Era magro Belmondo in A bout de souffle, era magro Jean-Pierre Léaud/Antoine Doinel in tutti i film di Truffaut, era magro Gérard Blain, Le beau Serge di Claude Chabrol, era magro Fred Junk nel racconto morale La boulangère de Monceau di Eric Rohmer che si concede qualche frutto comprato in una bancarella al mercato o un dolcetto presso la boulangerie (anzi più di uno, ma non perché ha fame; tra l’altro è bellissimo il gesto con il quale la boulangère incarta i dolcetti). Bistrot è caffè sono i luoghi dove vivono, tra pastis e Gitanes, partite a flipper e speculazioni filosofiche. Tra tutti i registi della Nouvelle Vague francese (come tutte le etichette, approssimativa, schematica e assai poco rappresentativa di tutte le individualità: che cosa hanno in comune l’hitchcockiano Chabrol con il romantico Truffaut, il rivoluzionario Godard con il colto e cerebrale Rohmer, il rigoroso Rivette con il formalista e individualista Malle? L’amore per il flipper e per Rossellini risponderebbe Truffaut), Eric Rohmer è certamente "le philosophe" del gruppo. La boulangère de Monceau è un mediometraggio girato nel 1962, il primo della serie dei Sei racconti morali. Chi conosce Rohmer sa della sua consuetudine di riunire in cicli la propria attività di autore: ai Sei racconti morali (dal 1962 al 1972) seguiranno il ciclo Commedie e proverbi (dal 1981 al 1987) e i Racconti delle quattro stagioni (dal 1989 al 1998), oltre ai diversi film per così dire “sciolti” come Il segno del leone o Reinette e Mirabelle. I film di Rohmer esigono un’adesione intensa e partecipata, direi un ascolto soprattutto, oltre che naturalmente una visione (regista attento all’aspetto formale e scenografico, Rohmer è stato autore di un fondamentale saggio dedicato all’organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau). Il suono in presa diretta, i dialoghi fluenti - pretesto per imbastire riflessioni filosofiche morali - l’understatement dei protagonisti sono parte integrante del Rohmer touch. La boulangère de Monceau è illuminante in questo senso: Parigi in b/n, una voce narrante, due giovani studenti che passeggiano lungo un boulevard, il timido abbordaggio a una ragazza (Sylvie) che poi si nega al primo appuntamento e il ripiego presso la boulangerie dove la commessa Jacqueline sembra più accondiscendente e dove il protagonista, suo malgrado, si abbuffa di dolci (ricordo un gâteau lorrain). Ma poi all’improvviso Sylvie ricompare: il suo non era stato rifiuto ma un infortunio a una caviglia, dovuto quindi al caso. E sempre per caso aveva avuto modo, dalla sua finestra, di osservare il giovane studente entrare e uscire più volte dalla boulangerie. Il protagonista s’interroga, abbandona Jacqueline (con la quale non c’era stato nulla, se non un gioco di seduzione fatto di sguardi e dolcetti) e si mette con Sylvie. Dopo sei mesi si sposano. Rohmer utilizza il cibo, in questo caso i dolcetti della boulangerie, come arma di seduzione, ma al contrario. Il giovane studente non è attratto né dai dolci né dalla boulangère. I dolci sono un pretesto per aggirarsi nel quartiere alla ricerca di Sylvie: per non dare troppo nell’occhio lo studente inizia a entrare nella boulangerie trovandosi obbligato a comprare il primo dolcetto, poi un altro e così via. Alla fine quando il giovane chiede un appuntamento alla timida e riservata commessa, Rohmer utilizza come codice amoroso i dolci: se Jacqueline incarterà due dolci sarà un sì al loro primo appuntamento. Peccato che non servirà a nulla: Sylvie rappresenta la verità, Jacqueline un errore ovvero una scelta non morale.
Quando si parla di commedia all’italiana si citano sempre Monicelli e Risi, Risi e Monicelli, a volte Scola e Maccari (come sceneggiatori) oppure Age e Scarpelli. Pochi ricordano Pietro Germi, autore, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, di alcune commedie che sono diventate dei classici (Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, Signore & signori). Germi ha sempre scontato la sua vicinanza al partito socialdemocratico, il PSDI, ricordate? quello di Nicolazzi e Pietro Longo, di Tanassi e Saragat, quinto presidente della Repubblica. Adesso sono tutti socialdemocratici, ma mezzo secolo fa era un’eresia, per la sinistra significava essere a destra del PSI (figuriamoci nei confronti del PCI). Molta critica militante non vedeva di buon occhio le posizioni di Germi che fu così stroncato o semplicemente ignorato (chi volesse approfondire può consultare un bellissimo volume edito da Pratiche Editrice, ormai introvabile, credo, se non sul web o su qualche bancarella). Eppure Germi è stato un autore/attore/regista/produttore di primissimo livello, quella piccola borghesia che rappresentava (Signore & signori) era anche il suo mondo probabilmente. Ma Germi è stato anche un attore, con quella sua faccia un po’ cosi (era originario di Genova) da caratterista americano; è stato un memorabile Ciccio Ingravallo nel gaddiano Un maledetto imbroglio, è stato attore anche in pellicole di altri (Il rossetto di Damiano Damiani). Antidivo per antonomasia, Germi aveva una di quelle facce che ricordano certi zii che abbiamo avuto tutti, magari scapoli, un po’ donnaioli, che alle feste comandate si presentavano sempre un po’ in ritardo e se ne andavano un po’ prima (devo scappare, ciao ciao ciao…). Uno dei film che ho più amato di Germi è senza dubbio Il ferroviere. Ricordo le molte scene girate nelle osterie, le caraffe svasate di vino bianco sui tavolacci rustici, lui con il toscano in bocca e la chitarra a intonare stornelli con il resto dei suoi colleghi e amici. Ne Il ferroviere le osterie sono il “luogo di perdizione”, la via di fuga, l’oasi nella quale il protagonista, interpretato da Pietro Germi stesso, si rifugia per tenere lontano i crucci familiari. In questo film viene fuori perfettamente l’universo piccolo borghese di Germi (socialdemocratico?), l’attaccamento al lavoro, alla famiglia, il bicchiere con gli amici, ma soprattutto il rifiuto dello sciopero, non tanto per una posizione ideologica ma per dimostrare di essere ancora capace di svolgere il proprio mestiere. Tutto sembra risolversi con una cantata e un bicchiere di vino dei Castelli, non c’è cattiveria monicelliana in questo film, non ci sono rivendicazioni, anticonformismi (Germi non avrebbe mai potuto dirigere un film come I compagni), non vi sono guasconi un po’ cialtroni alla Gassman e Sordi. Le osterie nei film della commedia all’italiana, occasione di incontri, di avance, di abbandoni, sono spesso un microcosmo di rara umanità (in questo Scola è stato un maestro), altre volte sono l’ultima spiaggia per scroccare un pasto (vedi Sordi), altre volte sostituiscono il focolare domestico per scapoloni impenitenti, altre volte ancora sono teatro di battaglie a polipi in faccia (I nuovi mostri) oppure di tragedie (Spaghetti House di Giulio Paradisi). Chiudo con Guccini: “Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta: qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità, si è sposato, fa carriera ed è una morte un po' peggiore...”
Stavo per scrivere qualcosa su La ricotta di Pasolini quando il buon, caro, Guido Martini mi segnala di aver rivisto in tv alcune scene di Corrado Guzzanti che interpreta Funari con la mortadella in tasca. Mortadella, ricotta… vediamo che cosa ne viene fuori. Guzzanti funarizzato è la quintessenza del nazionalpopolare, il giornalaio vs giornalista con la mortadella simbolo (gastronomico) del proletariato, come ci ricorda Francesco Nuti in Caruso Paskoski (la mortadella è comunista, il salame socialista, il prosciutto democristiano, la coppa liberale, le salsicce repubblicane, il prosciutto cotto fascista, la finocchiona radicale). Al cinema la mortadella è stata erotizzata da Valeria Marini in Bambola di Bigas Luna (chi si ricorda Prosciutto Prosciutto?) mentre Mario Monicelli ci ha fatto su un film (La Mortadella). E la ricotta? Non sarà che anche la ricotta è di sinistra? Non è un formaggio, viene fatta con lo “scarto” del formaggio, il siero, è protagonista di merende popolari, si ottiene da latte di diversi animali (vacca, pecora), a volte è fresca e morbida, altre volte dura e salata e si usa come formaggio da grattugiare. Se restiamo al film di Pasolini, girato nel 1963 come uno dei 4 episodi di Ro.Go.Pa.G (all’epoca era di moda mettere assieme 3-4 registi famosi e farli lavorare su un tema comune), la ricotta del film è simbolo della fame atavica di Stracci, il protagonista, una comparsa che recita in un film dedicato alla passione di Cristo (l’anno successivo uscì Il Vangelo secondo Matteo), alla perenne ricerca del cestino dalla produzione. Ma Stracci non è un proletario, non ha coscienza di classe, tutto ciò che gli interessa è placare la sua fame, fino alla morte. E’ un puro, come molti personaggi pasoliniani, non ancora corrotto dal consumismo e dall’omologazione borghese, vittima dei suoi istinti primordiali, vittima del suo istinto di sopravvivenza. Solo con la morte Stracci trova la libertà (“Povero Stracci. Crepare… non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”), allo stesso modo di Accattone ("Mo’ sto bene”) e di Ettore di Mamma Roma che muore su un letto di contenzione. Sì, ma alla fine, la ricotta è di destra o di sinistra?
Gli appassionati del Tenente Colombo sanno già dove andrò a parare. Sono due gli episodi in cui il food&wine è protagonista, in una serie dove il mangiare si vede sempre abbastanza poco se non qualche borsa della spesa che Colombo si ricorda di portare alla moglie (ma quale moglie?). Uno è Vino d'annata dove il protagonista è un critico gastronomico (l'espisodio, del 1978, è diretto da Jonathan Demme non ancora alle prese con Hannibal Lecter), l'altro è L'uomo dell'anno dove protagonista non è tanto il food quanto il wine. E' su quest'ultimo episodio che vorrei soffermarmi perchè è uno dei più belli in assoluto della serie. L'ho visto penso una decina di volte, la domenica sera alle 19.30 su Rete 4 (da anni la rete trasmette gli episodi, non senza qualche taglio, raggio di luce quando uno magona già per il lunedì mattina), Donald Pleasence è magnifico, Colombo si sforza di capire e apprezzare il vino fingendo come sempre, con la sua (falsa) naiveté, di essere un allocco. Prima della moda del vino californiano, prima di Sideways, Colombo si avventura tra tastevin e sommelier alla scoperta dell'assassino che è Donald Pleasence, winelover (come si dice adesso ma allora era un grande conoscitore del vino) che uccide il fratello intenzionato a vendere i vigneti. E che cosa ecogita? Lo uccide e lo nasconde nella cantina, una cantina a temperatura condizionata, e altera la temperatura per mettere sulla cattiva strada gli investigatori sull'ora del decesso. Colombo, che ha capito il sotterfugio, organizza una cena (alla quale avrebbe dovuto essere presente anche la moglie, ma quale moglie?) per stupire Donald Pleasence sulle sue doti di winelover. Ed ecco il coup de théâtre, il maître porta la bottiglia di vino, mesce, Donald Pleasance assaggia e orrore, fustiga il povero maître intimandogli di portare immediatamente via quella bottiglia irrimediabilmente rovinata. Che cosa è successo? Che Colombo aveva preso quella bottiglia dalla cantina di Donald Pleasence, che il vino era realmente andato a male a causa di una cattiva temperatura di conservazione, provocata dalla manomissione del condizionatore per opera di Donald Pleasence con lo scopo di ingannare gli investigatori sull'ora del decesso del fratello. Detto così sembra macchinoso, ma chi conosce le astuzie investigative di Colombo e le schermaglie verbali che intrattiene con i suoi assassini, sa che tutto si svolge con la consueta ironia e tutto scorre, drammaturgicamente, liscio come l'olio. A volte il vino d'annata può davvero fare male.
Nella sua carriera Martin Scorsese ha sempre alternato film a grosso budget e produzioni a basso costo, spesso documentari, quasi a volersi disintossicare dalle major e dallo stress dei budget hollywoodiani, rivolgendo il proprio interesse verso argomenti a lui cari. Italianamerican è uno di questi esempi. Girato nel 1974, quando a Scorsese è già un filmaker apprezzato dalla critica ma non è ancora l'autore di capolavori come Taxi Driver e Toro Scatenato, il film è un affettuoso omaggio alle sue origini italiane, alla sua famiglia, in particolare Charles e Catherine Scorsese, i genitori che abbiamo imparato a conoscere nei film del regista in tanti ruoli minori. Scorsese evita l'intervista diretta, il campo controcampo, il didascalismo e opta per una chiacchierata informale, durante un pranzo a casa Scorsese, nel Lower East Side. Appartamento piccolo borghese, salotto con divano ancora incellofanato per non sgualcirlo, la mamma che racconta, ogni tanto si alza per andare in cucina a controllare The Sauce e fare le polpette, papà Scorsese che riprende le fila, il regista che li osserva, ridacchia, mangia con loro seduto a tavola con accanto lo script, piluccando da un piatto una specie di insalata con delle zucchine (o cetrioli?) tagliati a rondelle. Le immagini scorrono, alernate a inserti di fotografie della famiglia, aneddoti, annotazioni, mentre in cucina The Sauce bofonchia sui fornelli. Che io ricordi, ma posso sbagliarmi, è l'unico film che nei titoli di coda riporta una ricetta. Ovviamente la ricetta di The Sauce: "Sing a onion & a pinch of garlic in oil. Throw in a piace of veal, a piace of beef, some pork sausage & a lamb neck bone. Add a basil leaf. When the meat is brown, take it out, & put it on a plate. Put in a can of tomato paste & some water. Pass a can of packed whole tomatoes through a blender & pour it in. Let it boil. Add salt, pepper & a pinch of sugar. Let it cook for awhile. Throw the meat back in. Cook for 1 hour. Now make the meatballs. Put a slice of bread, without crust, 2 eggs, & a drop of milk, into a bowl of ground veal & beef. Add salt, pepper, some cheese & a few spoons of sauce. Mix it with your hands. Roll them up, throw them in. Let it cook for another hour."
Anni dopo Scorsese si ricorderà di questa ricetta, di sua mamma, nel film Quei bravi ragazzi, quando Joey Pesci, Ray Liotta e Robert DeNiro fanno sosta con un cadavere nel baule della macchina a casa di Joey Pesci per prendere le pale e seppellirlo. Appena entrati in casa, di notte, la mamma li accoglie come solo una mamma italiana può fare. Li fa accomodare, prepara da mangiare, si preoccupa per loro ("Ma tu perchè non ti trovi una brava ragazza?" - "Mamma, io ne trovo tutte le sere di brave ragazze." - "Eh tu Henry, perchè non parli? Tu mangi poco, tu parli poco."). Gli appunti che Scorsese aveva schizzato sul taccuino quasi vent'anni prima sono diventati un ritratto completo di tutte le sfumature, solo The Sauce è rimasta tale e quale ad allora.
Penso che Kubrick si sia divertito moltissimo a immaginare il cibo in 2001 odissea nello spazio. La fama di perfezionista che Kubrick si è costruito negli anni avrà certamente coinvolto anche l'aspetto alimentare in un film così totale e avveniristico in cui, come scrive Rino Pensato, niente è lasciato al caso, nulla, anche il più insignificante (in apparenza) fotogramma non è lì per caso. Una delle sequenze che ricordo con maggior vividezza è quella in cui David Bowman, a bordo del Discovery, consuma un pasto a base di creme colorate con una forchetta high-tech, ergonomicamente perfetta. Nulla è più lontano dall'immagine del cibo che abbiamo in mente tutti noi (a meno che non si parli di cucina molecolare), ma trattandosi di fantascienza (anche qui ci sarebbe da discutere sul fatto che 2001 sia un film di fantascienza) Kubrick ha saputo rendere tutto perfettamente asettico, privo di qualsiasi qualità organolettica, tutto ridotto ai minimi termini, salvandosi solo l'aspetto cromatico (immagino però che qualche profumo/aroma artificiale lo abbia pensato). Faccio un salto (e in 2001 i salti temporali sono da manuale) per andare alla scena di Bowman, invecchiato, seduto in vestaglia a un tavolo imbandito: un piatto con della carne, un bicchiere di vino bianco che poi andrà in frantumi, un panino collocato su un piattino, vassoi coperti, posate (se volete il menu andate sul sito di MenSa). L'ambientazione, il tono, l'umore della sequenza non sono molto diversi dalla scena in cui Bowman consuma il suo pasto gelatinoso/cremoso. Voglio dire che l'arredamento settecentesco (secolo, come è noto, assai caro a Kubrick), il pavimento a scacchi bianchissimo (la mente corre alla scena del processo di Orizzonti di gloria), il candore, la pulizia, l'asetticità (di nuovo) non rendono questo pasto più "vero", meno "tecnologico" rispetto a quelli consumati sulle navicelle spaziali. Chiudo con un ringraziamento: sono debitore per queste righe a Giuseppe Lippi, autore di un preziosissimo Dizionario Ragionato dedicato a 2001 e pubblicato per Le Mani nel 2008.